La Deresponsabilizzazione, le sue trappole e come evitarle

deresponsabilizzazione

Lo facciamo tutti, più o meno, almeno una volta al giorno…

No, non è un indovinello, mi riferisco a un atteggiamento comune alla quasi totalità delle persone, anche a quelle più “evolute”, quelle che hanno dedicato tempo ed energia all’introspezione e alla crescita della propria consapevolezza.

Capita infatti proprio a tutti. Può riguardare il lavoro come la vita personale, la salute come l’amore, insomma, si tratta di un modo di fare (e, prima ancora, di pensare e di sentire) che non fa sconti e non risparmia alcuno, in nessuna epoca.

Perché questo habitus non è un parto recente della cosiddetta società moderna, anzi ha radici antichissime che, come vedremo ne ha favorito una radicalizzazione profondissima con ripercussioni non indifferenti.

Iniziamo a dargli un nome: in psicologia ci si riferisce a questa tendenza (in termini patologici, ovviamente) come alla sindrome del deresponsabilizzato, ovvero all’atteggiamento di chi riversa sugli altri la colpa di quello che di negativo sta sperimentando.

Deresponsabilizzazione, cos’è?

sentirsi in colpa

Guadagno meno di quanto vorrei?
È colpa del titolare che mi sottopaga perché sa che sono più bravo di lui!
Non mi ami più?
È colpa tua, che esci ogni sera con i tuoi amici e non stiamo più insieme!
E così via…

Attribuire agli “altri” la colpa di ogni cosa spiacevole è una pratica comunissima, così comune da diventare una vera e propria forma retorica, ampiamente sfruttata sui media.

In particolare è sui social media che il sistema spopola: sfruttando la reazione emotiva e istintiva prodotta dai cosiddetti neuroni specchio, l’enfatizzazione di una affermazione o di un pensiero già diffuso attira i consensi di chi, appunto, si rispecchia negli stessi.

E non importa se il pensiero sia evidentemente infondato, oggettivamente sbagliato o antistorico. Ciò che invece è determinante è cogliere la reazione emotiva che serpeggia tra la gente, stigmatizzarla, enfatizzarla e riproporla, spesso mercificata, anche se in modo sottile e talvolta invisibile, al medesimo pubblico che l’ha generata.

In altre parole, il soggetto produttore di una merce (informativa) ne diventa il suo stesso fruitore, in un ciclo economico dai bassissimi investimenti, dai rischi assai ridotti e con profitti potenzialmente elevatissimi.

Una lunga storia di responsabilità riflesse

colpa riflessa

Ma non diamo la colpa ai social, per carità! Ancora ci giunge l’eco di un certo Nerone che, si dice, avesse additato di molteplici atti riprovevoli gli aderenti a una nuova strana setta proveniente dall’oriente dell’Impero. Ai Cristiani si attribuivano così infinite nefandezze, finanche l’aver appiccato il famoso incendio di Roma, nel 64 d.C. .

E, assai più recentemente, fu durante un terrificante discorso del 1939 davanti al Reichstag, che Hitler descrisse come indispensabile l’adozione immediata di ogni tipo di difesa dall’aggressione (più che altro finanziaria) della “razza ebraica” al fine di salvaguardare la razza tedesca.

Il passo, poi, dalla difesa alla difesa legittima è brevissimo e, si sa, se la difesa diventa “legittima” non c’è più colpa per chi reagisca, anche con la forza, nemmeno nei casi estremi. Il resto, purtroppo, lo conosciamo tutti.

Le ragioni della deresponsabilizzazione

In questo sottile meccanismo di deresponsabilizzazione sta la potenza devastante di questa abitudine. Spostare su altri – ovvero all’esterno di noi – la colpa di qualcosa, immediatamente ci fa stare meglio. Prima di tutto ci sgrava del senso di colpa. Cosa non da poco, questa, soprattutto in culture in cui quest’ultimo è un fardello che l’essere umano si porta appresso fin dalla nascita…

In secondo luogo, identificare il responsabile del problema ci dà la possibilità di riversare contro di esso ogni tipo di reazione emotiva, contemplando anche l’aggressione violenta. Violenza che può essere tanto fisica quanto verbale quanto psicologica.

Dare ad altri la “colpa” per un nostro insuccesso è molto più facile che analizzare le nostre possibili carenze: questo, infatti, ci porterebbe a prendere in considerazione l’eventualità di cambiare alcuni dei nostri atteggiamenti. E cambiare, si sa, in genere costa un certo impegno. Spostare dunque la responsabilità fuori di noi è una bella scorciatoia.

In secondo luogo, se le cose sono andate male per colpa di “qualcun altro”, significa che non siamo noi ad aver commesso errori e, quindi, non dobbiamo ammettere la nostra “fallibilità”. Anche questa, una volta ammessa, implica infatti un percorso di autocritica e di evoluzione, tutte cose raramente indolori.

Inoltre, scaricare su altri la responsabilità di ogni fastidio ci solleva dal dover affrontare il carico emotivo che ne deriva. Disillusioni, dispiaceri, rabbia… tutte emozioni che possiamo utilmente rivolgere contro chi ci ha illuso, deluso o tradito, piuttosto che gestirle, per così dire, “in casa”.

Ciò è frutto di un’idea troppo diffusa per cui chi ha ragione è bravo e chi sbaglia è cattivo, per cui quando non si ha successo il nostro ego può trovare una facile scappatoia nella deresponsabilizzazione, trasformando l’altro nel cattivo e preservando la nostra buona immagine interiore.

La questione del libero arbitrio

Questo atteggiamento, grazie ai raggiri del nostro ego, ostacola direttamente e indirettamente l’evoluzione personale.

Ma esiste un altro livello di deresponsabilizzazione che è altrettanto pernicioso. Infatti, troviamo un atteggiamento di totale deresponsabilizzazione quando si cerca (e immancabilmente si trova) fuori di noi la responsabilità di ogni cosa che ci accada, tanto buona quanto cattiva.

Facciamo un incidente? È la malasorte!
Gioiamo di un ricco raccolto? È la generosità di Dio/di madre natura…
Sperimentiamo una esperienza dolorosa? È il destino/il volere degli dei e così via.

Potremmo pensare «non è così, i precetti religiosi/filosofici lasciano spazio al libero arbitrio; sei tu a decidere come comportarti!»

Attenzione però: il libero arbitrio, analogamente a quanto avviene in altre visioni spirituali, può non essere sufficiente per riconoscere a noi stessi la piena responsabilità di ciò che accade.

In effetti, quasi ogni sistema spirituale o religioso prevede una serie di dogmi o regole di comportamento dettate da entità superiori.

Aderire o no alle stesse è espressione della nostra libertà ma, al contempo, ci pone in una logica più esecutiva che partecipativa. Il rispetto della regola può diventare più importante del messaggio in essa contenuto. Era così per i farisei del Cristo ed è sapientemente rappresentato in una celebre frase attribuita, non a caso, a Buddha:

Affidati al messaggio del maestro, non alla sua personalità.
Affidati al senso, non alle parole.
Affidati al senso reale, non a quello temporaneo.
Affidati alla tua mente di saggezza, non a quella ordinaria che giudica.

Soltanto comprendendo a fondo il senso reale delle cose è possibile contenere il rischio della deresponsabilizzazione, riconducendo ogni circostanza alla sua natura più intima. Le pratiche spirituali che non cadano in questo tranello sono davvero poche, anche perché il rischio di cedere alla tentazione della forma, a discapito della sostanza, è sempre presente.

I pericoli della deresponsabilizzazione

relazioni affette dai pensieri negativi

Ma perché riteniamo l’atteggiamento così pericoloso?
Abbiamo visto – seppur approssimativamente – cosa comporti attribuire ad altri la responsabilità (colpa) per gli accadimenti spiacevoli; fare altrettanto per quelli “piacevoli” (merito) significa davvero perdere il controllo su sé stessi.

Mi spiego meglio: dare la colpa di qualcosa ad altri significa privare di responsabilità noi stessi, cioè implica che perdiamo il potere di evitare l’evento spiacevole, di cambiare o migliorare le cose. Significa cioè che “non possiamo farci niente”, perché non dipende da noi!

Fare altrettanto con qualcosa di positivo, cioè dando il merito ad altri, significa – allo stesso modo – che quella situazione vantaggiosa non dipende direttamente da noi. In altre parole, è merito di qualcun altro, non nostro.

L’azione combinata di questi modelli mentali produce rilevantissimi effetti sociali e personali. La martellante azione di sfiducia in noi stessi ci porta a riconoscere ad altri ogni tipo di potere sulla nostra vita.

Non importa chi siano “gli altri”, se sono un gruppo politico, una lobby o semplicemente un’etichetta sociale costruita appositamente per fare da cassa di risonanza alle nostre emozioni e alle nostre paure. Ebrei, stranieri, omosessuali, drogati…tutti stereotipi che riflettono un pregiudizio diffuso che ci viene riproposto con sapiente strategia.

Ed è questa una strategia planetaria, che non conosce confini geopolitici e che non si fa scrupoli per instillare in ciascuno di noi la semplice idea che “non abbiamo il potere di cambiare le cose”, di “fare la differenza”.

Riprendere il nostro potere

sciamanesimo contemporaneo

Riconoscere a sé stessi il pieno potere di realizzare compiutamente il proprio futuro è stato tacciato di eresia e, nonostante i secoli siano passati, ancora oggi fortemente osteggiato, seppur in modo più sottile.

Ciò in quanto alla deresponsabilizzazione personale coincide con la responsabilizzazione dei sistemi (religiosi, sociali, politici, economici) a cui sentiamo di appartenere. Maggiore è la responsabilità che attribuiamo loro, minore è il senso di colpa di cui dobbiamo sostenere il peso. Sembrerebbe quindi uno scambio vantaggioso, fatta salva la cessione di potere che inesorabilmente ciò comporta…

Attenzione però; riconoscere a sé stessi il pieno potere su ciò che ci accade, per quanto indispensabile per favorire una reale crescita personale, non è privo di rischi e difficoltà. In primo luogo, occorre riporre attenzione sulla profonda differenza tra colpa e responsabilità.

Colpa e responsabilità

La prima è quel sentimento di disvalore che ci induce a ridurre la fiducia in noi stessi e nelle nostre capacità. Questa sfiducia non riguarda soltanto le competenze tecniche o culturali ma si estende, purtroppo, fino alle capacità intrinseche e innate in ciascuno di noi.

Ma a quale scopo tutto questo? Senza voler rincorrere sterili congetture complottiste, il meccanismo sociale è abbastanza chiaro. Deresponsabilizzare noi stessi non significa infatti eliminare la responsabilità dal nostro orizzonte, ma significa semplicemente spostarla su altri. Attribuire ad altri una responsabilità per qualcosa, implica anche affidare loro una parte del potere che è in noi. Cediamo così ad altri ruoli e facoltà che sarebbero nostre.

In certi casi è la stessa vita sociale a richiederlo; diversamente si verserebbe in una situazione di completa anarchia, dove ciascuno opererebbe secondo regole personali, facendosi giustizia da soli e questo, evidentemente, non è accettabile.

Ma alla costante e progressiva cessione di compiti e responsabilità ad altri corrisponde una progressiva costante perdita di controllo da parte nostra. In breve tempo ci ritroviamo a vivere in un contesto in cui siamo del tutto spossessati dell’autocontrollo.

L’autocontrollo

A qualcuno abbiamo delegato decidere qual è il nostro “dress code”. Ad altri abbiamo delegato l’onere di informarsi e comprendere. Ad altri ancora quello di definire ciò che è bello e, quindi, ci deve piacere, qualificando come desiderabile qualcosa o qualcuno deciso da qualcun altro. Un processo di deresponsabilizzazione così pervasivo che si estende perfino agli oggetti, che ci sostituiscono in competenze sempre più complesse.

È la nostra auto che frena al posto nostro, è l’elettrodomestico che mescola e prepara il cibo, è il telefonino che ci sveglia la mattina; tutte competenze che cediamo volentieri il più delle volte per comodità, cioè per evitare un po’ di fatica o impegno.

Tutto questo è davvero pericoloso a lungo termine perché questi comportamenti divengono veri e propri modi di essere. In questo modo perdiamo consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che possiamo essere. Perdiamo coscienza di noi stessi e fiducia nel nostro stesso potere. Dimentichiamo di disporre di poteri e di energie sopite da troppo tempo, fino ad essere ignorate, delegando in toto ad altri il compito di capire, decidere, diagnosticare, curare, guarire.

La soluzione

donna vestita di bianco cammina in un campo di grano

L’alternativa a questo spossessamento è dunque assai semplice: si chiama consapevolezza. Attraverso di essa l’essere umano accetta consapevolmente cosa delegare ad altri e cosa trattenere in sé, così favorendo un più equilibrato bilanciamento psicologico ed energetico.

Un percorso, questo, anch’esso non privo di pericoli; tra tutti quello di ricondurre a noi stessi la colpa di ogni cosa, con inevitabili crescite smisurate del senso di colpa andando incontro a sicure e conseguenti disillusioni.

Ma, per far questo, e riappropriarsi di almeno una quota del nostro potere, è necessario prima lasciarsi alle spalle ogni senso di colpa. Accettare sé stessi per ciò che si è senza auto-affliggersi, cogliendo nelle nostre carenze le nostre migliori occasioni di crescita. Analizzandole, infatti, dapprima comprenderemo fino a che punto si tratti di veri deficit, misurando su di esse l’effetto delle influenze esterne. Solo dopo potremo scegliere il da farsi, così trasformando una criticità in una chance di miglioramento.

Conclusione

Comprendere che tutto dipende da noi significa anche comprendere che a noi è rimesso un grande potere.

Il primo passo sarà riprendere contatto con il nostro corpo, mettendoci all’ascolto dei suoi messaggi più sommessi, per poi proseguire nell’esplorazione della nostra interiorità. Se sapremo essere aperti e non giudicanti, ai nostri occhi si apriranno scenari di incredibile profondità e potremo accogliere in noi una bellezza e un amore fino ad allora sconosciuti.

Basta solo iniziare, basta solo interrompere il circolo vizioso della deresponsabilizzazione per riscoprire come tornare a essere padroni di noi stessi!

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