Dzogchen: Cos’è, come si pratica e quali sono i suoi precetti

dzogchen

Lo Dzogchen, nella tradizione buddista, rappresenta lo stato di profonda e naturale consapevolezza della mente.

Il nome indica anche l’insieme di insegnamenti volti a raggiungere questo particolare stato, che i buddisti definiscono come il percorso definitivo verso l’Illuminazione. Spesso viene anche chiamato Ati yoga, il più alto yoga, ed è un insegnamento centrale della tradizione buddista Nyingma.

In questo articolo scopriremo nei dettagli cos’è lo Dzogchen, le sue origini, i suoi precetti e come raggiungere questo livello di presenza mentale.

Dzogchen: Definizione e significato

Lettera A dell'alfabeto tibetano, utilizzata nella pratica della concentrazione
La lettera A dell’alfabeto tibetano, utilizzata come mezzo di concentrazione nella pratica

Il termine Dzogchen proviene dalla lingua tibetana ed è composto dalla radice rdzogs (perfezione, riuscita) e da chen (grande, completa). La traduzione più comune che gli viene attribuita nella nostra lingua è quella di Grande Completezza, che suggerisce anche l’intrinseca perfezione della nostra mente.

Il termine tibetano Dzogchen non è altro che un’interpretazione del vocabolo in sanscrito mahāsandhi, ed è anche usato per riferirsi allo yoga primordiale, in sanscrito Ati Yoga.

Lo Dzogchen è legato a doppio filo alla meditazione: si tratta infatti di un metodo avanzato di meditazione che esplora livelli più profondi e complessi della mente. Quanto si parla di “mente”, lo Dzogchen si riferisce all’attività mentale continua e frenetica che ci porta ad interagire senza sosta con il mondo intorno a noi e con i nostri stessi pensieri.

Sebbene sia generalmente associato al Nyingma, l’Antica Scuola di Buddismo Tibetano fondata da Padmasambhava, lo Dzogchen è stato praticato nel corso dei secoli dai maestri di tutte le diverse scuole buddiste.

Dallo Dzogchen deriva anche lo Yantra Yoga, uno stile di yoga tibetano.

Storia e origini

monaci buddisti

Sappiamo molto poco della storia e le origini di questa tradizione, poiché si è sviluppata sia nel lignaggio buddista che in quello nativo Bon, una religione pre-buddista praticata in Tibet.

La maggior parte delle storie buddiste legate allo Dzogchen, tuttavia, hanno inizio con la figura del maestro Padmasabhava e la sua opera di divulgazione del buddismo in Tibet durante la seconda metà dell’VIII secolo.

Lo Dzogchen iniziò a prendere forma proprio in questo periodo, in circostanze in gran parte sconosciute, sebbene il suo sviluppo successivo fu chiaramente un fenomeno tibetano attinto da diverse tradizioni spirituali come il Chan cinese, il Buddismo indiano, il Taoismo, il Saivismo tantrico e le religioni indigene.

La storia del Tibet prima del VII secolo d.C. è difficile da determinare. Secondo una serie di testi rinvenuti a Dunhuang risalenti al settimo fino al decimo secolo, il Tibet era governato da una stirpe di re, che fondarono un sistema di leggi che rifletteva l’ordine cosmico del cielo. In quanto discendente letterale del cielo, il re era l’incarnazione e il protettore dell’ordine cosmico e del benessere dello Stato. La presenza stabile del re sul trono garantiva così l’armonia nel regno.

Fu Padmasambhava, aiutato dai due maestri indiani Vimalamitra e Vairocana, a trasmettere al re, che aveva formalmente invitato la presenza del buddismo in Tibet, i primi insegnamenti Dzogchen. Successivamente un’altra figura chiave nel lignaggio Dzogchen, un monaco chiamato Vimalamitra, fu invitato dal re a trasmettere ulteriori insegnamenti Dzogchen in Tibet.

La dottrina è arrivata alle nostre latitudini all’inizio del XX secolo con le prime pubblicazioni sul buddismo tibetano nel mondo occidentale. Una delle più conosciute sullo Dzogchen fu il cosiddetto “Libro tibetano dei morti”. Lo Dzogchen si è poi largamente diffuso al di fuori del Tibet grazie alla diaspora tibetana, a partire dall’esilio tibetano del 1959.

Tradizione Bon

Secondo la tradizione Bon, lo Dzogchen ebbe origine dal fondatore di questa corrente spirituale, ovvero il Buddha Tonpa Shenrab Miwoche, che visse 18.000 anni fa, governando il regno di Tazik, che si suppone si trovasse ad ovest del Tibet. Trasmise poi questi insegnamenti alla regione di Zhang-zhung, l’estrema parte occidentale del mondo culturale tibetano.

Dottrina

buddismo

Lo Dzogchen è lo stato primordiale (o condizione naturale) della mente.

Secondo questa dottrina, la natura ultima di tutti gli esseri senzienti è la chiarezza primordiale pura, onnicomprensiva e senza tempo. Questa chiarezza intrinseca non ha una forma propria, tuttavia è in grado di percepire, sperimentare, riflettere ed esprimere tutte le forme che la circondano. Lo fa senza essere influenzata da queste ultime in modo definitivo e permanente.

L’analogia offerta più spesso dai maestri Dzogchen è che la nostra vera natura è come quella di uno specchio che riflette con precisione ciò che gli sta davanti, ma non è influenzato dai riflessi, oppure una sfera di cristallo che assume il colore del materiale su cui è posta o della luce che la attraversa, senza che essa stessa venga cambiata.

Per usare un’analogia più moderna, potremmo pensare alla nostra mente come ad uno schermo sul quale vengono proiettati i pensieri. Viviamo i nostri pensieri, ma questi non cambiano la nostra natura e non rappresentano la nostra vera essenza, in quanto siamo la tela immutabile sulla quale si susseguono.

La conoscenza che deriva dall’atto di riconoscere questa chiarezza mentale è ciò che gli Dzogchenpa (i praticanti dello Dzogchen) chiamano rigpa.

Una volta raggiunto rigpa, lo stato naturale, non veniamo più influenzati dai nostri stessi pensieri e raggiungiamo uno stato di consapevolezza superiore che ci avvicina all’Illuminazione.

Insegnamenti

Lo Dzogchen rappresenta il primo (e più alto) dei nove yāna (veicoli per la liberazione) della scuola buddista Nyingma. Trattandosi del più alto dei veicoli è anche il più semplice, in quanto la sua essenza è la forma più pura e chiara di meditazione.

Lo Dzogchen è uno stato difficile da descrivere a parole o comprendere prima che venga sperimentato in prima persona, per questo la pratica si basa tradizionalmente su una relazione con un guru o un lama che impartisce istruzioni specifiche ai propri allievi. Questo non perché sia una pratica elitaria o particolarmente complicata, bensì per evitare che l’allievo incorra in convinzioni errate che lo devierebbero dal raggiungimento del rigpa.

Gli insegnamenti Dzogchen enfatizzano la naturalezza, la spontaneità e la semplicità.

Anche se è parte integrante della filosofia buddista, spesso i maestri sottolineano il carattere non religioso dello Dzogchen: è la nostra natura primordiale, che esiste dall’inizio dei tempi a prescindere da qualsiasi credo religioso.

Come praticare

consapevolezza

Lo Dzogchen non invita a “bloccare” i pensieri, né a tentare di modificarli, né a trasformarli. Dobbiamo semplicemente osservare la mente, annotando come i pensieri sorgono, permangono e scompaiano.

Nel momento in cui diventiamo osservatori di ciò che accade nella nostra mente, senza interferire, lasciarci coinvolgere o tentare di modificare i pensieri, ci avviciniamo allo stato naturale, che porta con sé una profonda e chiara consapevolezza.

La tradizione Nyingthig incarna l’insegnamento Dzogchen in tre principi, noti come “I Tre Testamenti” (Tsik Sum Né Dek):

  1. Introdurre direttamente allo stato naturale (ngo rang thog tu sprad). Conosciuto anche come “la base”, questo primo principio fa riferimento all’insegnamento vero e proprio, in cui il maestro introduce gradualmente l’allievo al rigpa.
  2. Non rimanere nel dubbio riguardo a questo stato (thag gcig thog tu bcad). Conosciuto come “la via”, il secondo principio rimarca l’importanza di conoscere a fondo questo stato e non dubitare della sua essenza.
  3. Continuare nella profonda conoscenza dell’autoliberazione (gdengs grol thog yu bya). Conosciuto come “il frutto”, l’ultimo principio fa riferimento all’integrazione di questo stato nella vita quotidiana per arrivare alla conoscenza immutabile e totale dell’autoliberazione.

Conclusione

Lo Dzogchen rappresenta lo stato mentale più puro e cristallino, il veicolo verso una meditazione profonda e la completa astrazione dai pensieri, senza combatterli né tentare di modificarli.

Benché sia difficile riassumere con semplicità la sua storia e i suoi precetti, specialmente per chi non pratica il buddismo, si tratta di un percorso che prescinde dal credo religioso e che ci consente di raggiungere una piena e completa presenza mentale sia durante la meditazione che nella vita di tutti i giorni.

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