Pace e Felicità: Sono davvero la stessa cosa?

pace e felicità

Pace e felicità: due espressioni spesso accumunate, talvolta confuse e comunque spesso fraintese. In ciò, forse, sta la nostra difficoltà nel determinarci alla ricerca della prima o della seconda. Già, perché le strade che vi conducono non sono affatto parallele, anzi!

C’è poi chi ritiene che non sia possibile giungere alla seconda senza la prima, o viceversa, ma le cose non stanno proprio così.

Partiamo allora con un po’ di analisi, etimologica ancor prima che lessicale, perché spesso il vero significato di un’espressione si annida nelle sue origini…

La felicità

accettazione

Cominciamo dalla felicità. Le radici fonetiche sono assai remote e attingono alla radice sanscrita bhu, poi divenuta foe o fe, in greco φύω (fio) da cui derivano i termini fecondo e feto. Il latino sintetizza e concretizza le espressioni con le rispettive radici nel termine foelix (o felix), ovvero fecondo, fertile e – in senso più esteso – soddisfatto, appagato.

La radice della nostra idea di “felicità” attiene dunque ad un senso di appagamento, soddisfazione, gratificazione.

Compreso questo, possiamo spingere la nostra analisi un po’ più in profondità, rivolgendo la nostra attenzione alla portata di tale assunto.

Se, infatti, la “nostra” felicità deriva dal senso di soddisfazione o di appagamento, forse tornerebbe utile indagare sull’oggetto stesso della soddisfazione. In altre parole, se per essere felici è necessario essere appagati, sarebbe comodo comprendere cosa esattamente ci appaghi, in modo da poter più facilmente essere felici!

E quindi, cos’è che ci appaga? Cosa ci da soddisfazione?

Comprendere l’appagamento

appagamento

Alla memoria tornano velocemente tanti esempi: chi non ricorda quella volta in cui si mangiò così bene (o così tanto), o quella sera in cui l’amore fu così sublime da diventare un ricordo indelebile?

E quella promozione tanto sudata? O quell’esame così duramente superato?

Tutti ottimi esempi, ma potremmo cercare di analizzarli un pochino più a fondo?

Ad esempio, possiamo agevolmente distinguere l’appagamento di alcune pulsioni, primarie se non addirittura istintive (come mangiare, riprodursi,…), da altre apparentemente più evolute, come quelle che attengono alla realizzazione professionale o al raggiungimento di uno specifico obiettivo.

Certo, ricevere il premio Nobel non può essere paragonato ad una notte di amore… o forse sì? Già perché, a ben vedere, che si tratti del raggiungimento di un risultato professionale, o della realizzazione di uno dei più istintivi desideri, laddove questi siano capaci di renderci felici, ciò che assecondiamo è (spesso) principalmente il nostro lato emozionale, quindi il nostro ego.

Se, infatti, conseguissimo un eminentissimo riconoscimento dovremmo farlo non per il piacere edonistico di riceverlo, quanto piuttosto per il valore intrinseco delle nostre scoperte o delle opere compiute. Diversamente anche un traguardo così eccelso non sarebbe – per noi stessi – che l’appagamento di un desiderio egoistico.

Un traguardo effimero

corridore

Mi spiego meglio: immaginiamo di essere degli sportivi, dei corridori ad esempio. In fase di crescita invidiamo i corridori più esperti, rapidi e resistenti di noi, e desideriamo ardentemente eguagliare le loro performance.

Di conseguenza ci impegniamo a fondo e, con costanza e abnegazione, riusciamo progressivamente a migliorare le nostre capacità, correndo sempre più veloce, più lontano e a lungo.

Infine, dopo mesi di duro allenamento raggiungiamo il nostro obiettivo e finalmente riusciamo a correre la nostra prima mezza maratona in meno di cento minuti. È un grandissimo risultato per noi e al traguardo ne siamo legittimamente fierissimi. In quel momento sentiamo di essere davvero “felici”!

Le endorfine galoppano e non proviamo più dolore per quei fastidiosi crampi ai polpacci. La dopamina inizia a diffondersi; siamo euforici, positivi e motivati!

Ma, proprio mentre stringiamo tra le mani la targa o il gagliardetto che testimonia i risultati raggiunti, il nostro sorriso inizia a incrinarsi. Osserviamo chi è arrivato prima, molto prima di noi, o quelli che a corsa appena finita appaiono freschi e riposati come una rosa, quasi fossero pronti a ripartire immediatamente.

Ripensiamo agli sforzi compiuti e cominciamo subito a pensare ai prossimi allenamenti, sforzandoci di allontanare l’idea di non riuscire mai a raggiungere il livello di forma fisica di chi ci è accanto.

Ecco, la felicità è quasi finita. Ne resta traccia, dentro di noi, ma ora la nostra attenzione è già altrove, al prossimo obiettivo, alla prossima sfida!

La natura della felicità

effimero

In questa fragilissima impermanenza sta la natura profonda della felicità. Non fraintendiamo: ciò non deve essere inteso come un “limite”, un difetto di questa meravigliosa e desiderabile condizione. Ne è semplicemente una sua caratteristica intrinseca.

Peraltro va osservato come quest’ultima sia del tutto funzionale, ovvero assolva a specifiche funzioni. Se restassimo “felici” per lunghi periodi, più difficilmente accetteremmo nuove sfide e meno volentieri ci porremmo obiettivi sempre più elevati.

Se ai nostri antenati fosse bastato raccogliere da terra una noce per essere felici, non ci saremmo sforzati così caparbiamente di trovare metodi e strumenti per raccogliere i frutti sui rami più alti dell’albero e così via…

L’estrema temporaneità di questa condizione è, al pari di altre intense sensazioni, il motivo stesso per cui ci sentiamo spinti a ricercarla, dedicando a questo obiettivo così tante energie.

La pace

pace interiore

E la pace invece? Anche per essa la radice è sanscrita (pak- o pag- cioè fissare, pattuire, legare, saldare) e ne derivano pure i concetti di “pagare” e “patto”. Nel latino pax, la pace viene intesa come quella preziosa condizione di armonia, quel sentimento di unione che dovrebbe legare singoli individui e intere popolazioni.

Nell’accezione nel tempo più diffusa, la pace è intesa come quella condizione di concordia in antitesi alla “guerra” o a ogni situazione di conflitto personale o generalizzato. In questo contesto tuttavia ci riferiamo tuttavia a una pace di tipo interiore, ovvero a una condizione di diffusa serenità emotiva e psicologica.

Spesso, infatti, siamo talmente occupati dalle faccende quotidiane da stentare persino ad accorgerci di quanto tumulto si agiti dentro di noi. Pensieri, ricordi ed emozioni si rincorrono senza regole, distraendoci irrimediabilmente dal momento presente e inducendoci ad azioni e a reazioni involontarie, cioè eseguite senza il supporto della nostra volontà, della nostra piena coscienza.

La ricetta della pace interiore

respiro yoga

In questo caos interiore non può esservi pace e l’unico modo per porvi rimedio è quello di sottrarre sé stessi dall’equazione “emozioni + pensieri + ricordi + input esterni = io”. Ponendo sé stessi (cioè “io”) su un piano distinto, nelle vesti di un osservatore oggettivo di ciò che si agita e accade fuori e dentro di noi, mettiamo le basi per una consapevolezza differente, non contaminata da quei conflitti interiori o dalle pressioni esterne e, quindi, effettivamente in pace.

È questa la pace di chi medita, è questa la pace della grazia divina, è questa la Shanti induista o il Samādhi buddista, che non a caso può essere tradotto e inteso come “mettere insieme” – non tanto lontano dal significato originario stesso di pace.

Le vie per raggiungere questo stato di liberazione interiore sono molteplici e, seppur non infinite, conducono sempre a una condizione spirituale in cui il soggetto sperimenta l’assenza interiore di conflitti e l’unità con l’universo nel momento presente.

Quando sperimentiamo questa condizione non assistiamo alla botta euforica provocata dal cocktail ormonale di dopamina e di endorfine. La pratica meditativa stimola la produzione della prolattina e della melatonina, inducendo un diffuso senso di benessere, rafforzato e stabilizzato dalla diffusione della serotonina e della noradrenalina.

Ci sentiamo più “stabili”, più energici, radicati nel nostro corpo e nel nostro spirito.

È questa una condizione meno “eccitante” di quella provocata dalla dopamina ma, a differenza di quella, possiede la capacità unica di interagire così profondamente con il nostro modo di essere e pensare da modificarne progressivamente il funzionamento.

Riplasmare la nostra mente

pulizia del corpo

Si parla, a questo proposito, di neuroplasticità del cervello, ovvero della capacità di quest’ultimo di modificare letteralmente il proprio modo di funzionare in relazione al ripetersi di una serie di eventi particolarmente intensi e significativi.

La mente di chi medita con assiduità, così come di chi prega intensamente, cambia. Forse potremmo dire “si evolve” in una direzione diversa, meno schiava dei sensi e delle emozioni e più propensa a un atteggiamento di generalizzata empatia.

Infine va osservato come la profonda stimolazione della ghiandola pineale – il “luogo” della coscienza superiore secondo alcuni – può produrre uno stato di particolare benessere, anche fisicamente percepibile. Si tratta di una vera e propria sensazione di “piacere”, affine per certi versi a quello sessuale ma del tutto esclusivo e intrinsecamente differente.

Si è così introdotta la nozione di ASMR (RAMS, nella versione italianizzata, ovvero Risposta Autonoma Meridiana Sensoriale), una sensazione descritta dai più come un leggero e gradevole formicolio che si diffonde progressivamente in tutto il corpo.

Va anche detto che, in alcuni soggetti, è possibile indurre una risposta ASMR anche senza meditazione, ovvero in risposta a determinati stimoli tattili o uditivi. Sta di fatto che gli effetti che la meditazione produce nel tempo sul cervello e sulla ghiandola pineale parrebbero davvero capaci di modificarne le facoltà di reazione, aprendoci a un mondo nuovo di impalpabili e fino ad oggi ignote sensazioni.

Conclusione

E quindi? Possiamo concludere che conseguire la pace interiore sia meglio che rincorrere la felicità?

Affatto, questa sarebbe un’approssimazione particolarmente superficiale e forse anch’essa figlia del nostro ego…

La felicità e i meccanismi che la regolano fanno parte dell’essere umano. Ne sono stati – e tuttora sono – una delle principali molle motivazionali e sarebbe sciocco pensare di volerla abbandonare.

Piuttosto potremmo considerarla per quella che effettivamente è: una delle nostre più meravigliose emozioni. Non perdiamo quindi l’occasione di gioirne, quando ci è possibile, godendo fino in fondo la bellezza di quel fuggevole momento ma, al contempo, impariamo a non diventarne dipendenti.

Perché, alla stregua di ogni altro aspetto emotivo e attinente al nostro ego, dobbiamo sempre porre attenzione a quanto la nostra visione del mondo (e quindi anche di ciò che ci rende felici o infelici) dipenda davvero da noi e quanto invece sia frutto di pressioni esterne.

In questo può aiutarci la parola di Don Miguel Ruiz jr. (ad esempio in “Essenza dei quattro accordi”) che ci stimola ad osservarci con attenzione per riconoscere gli influssi del mondo esterno su noi stessi. Spesso questi sono più forti di quanto si voglia ammettere, e altrettanto frequentemente così trasparenti al nostro sguardo distratto da essere del tutto invisibili!

Concludendo… per essere in pace non possiamo perdere le occasioni per essere felici, ma per essere davvero felici, forse, dobbiamo aver trovato la nostra pace.

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2 risposte

  1. Caro Michele ancora un altro meraviglioso articolo! Grazie. Penso che l’uomo abbia più bisogno di raggiungere la serenità ..la felicità passa mentre un’atteggiamento sempre sereno e gioioso è possibilissimo col giusto “addestramento mentale” Applicando per esempio la calma…molto più dinamica a mio avviso della pace.
    Buona vita
    Namastè ?
    Pamela

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